Francesco Principe era
ormai un residuo umano. Bruciato dalla testa ai piedi giaceva supino e
ammantato d'un sol cencio nella grande piazza Duomo in fiamme. Ardeva Cosenza e
i lamenti dell'uomo erano poco più d'un vagito nella città fetida e cadente.
Affastellati senza criterio alcuno, i tuguri dei cosentini si appicciavano come frospari sotto la calura mattutina di settembre e lo sfascio delle
dimore signorili, anch'esse avvolte da lingue di fuoco. Era l'annuncio della
fine anticipata della belle époque
cosentina.
Accadde qualche minuto
prima delle dieci del 28 settembre 1901. La città era pulsante e desiderosa di
vita, i commerci procedevano con usate cadenze tra le puzze dei pitali
tracimanti della notte che, miscelandosi allo stantio di baccalà esposto in
ammollo, ammorbavano l'aria rendendola vomitevole. Era giorno di mercato in
piazza Duomo, così ingombra da impedire persino il transito delle carrozzelle.
Tra erbe, attrezzi agricoli e piccolo artigianato locale che richiamavano gente
da tutta la provincia, si aggiravano borseggiatori, mendicanti e avvinazzati.
Ma anche vite semplici,
operaie: membra e menti stanche che, a sera, si abbandonavano in improvvisati
luoghi di mescite illegali oppure vere e proprie cantine, aperte e chiuse nel
breve volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Non certo
nettare pregiato ma vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcool,
tagliato da schifo da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre
al taglio discutibile, la vendita e la mescita a prezzo superiore a quello
imposto dal calmiere era il tipo di speculazione legata al vino, più diffusa.
Per chi lo chiedeva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde
sotto sale, più raramente uova sode e frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Fra i
tavolacci ci si sfidava a bazza e primiera, giochi osteggiati dalle leggi
e dalla pubblica moralità, si discuteva di donne e politica, e dagli
apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era assai breve. Si
girava armati di coltello, a molla, come nella tradizione, da far scattare alla
bisogna. Fornitissima di bocche da fuoco, polveri e lame, corso Telesio era una
enorme armeria e i cosentini, anziché affidarsi alle guardie di pubblica
sicurezza, preferivano delegare la difesa della propria e famigliare incolumità
a rivoltelle, carabine e revolver.
Per rendere un favore a
un mandriano della magna Sila, l'ufficiale telegrafico Clemente Rija era giunto
in città per acquistare mezzo chilo di polvere da sparo. Il magazzeno d'armi di Francesco Principe, una delle glorie cittadine nello
smercio di armi, polveri, cartusce e
capsule era lì, a un tiro di schioppo dalla cattedrale, nel palazzo
Giannuzzi-Savelli, per foraggiare le prodezze balistiche di malandrini e
duellanti. A richiesta del suo cliente, l'armaiolo Francesco Principe sgusciò
nel retrobottega dimenticandosi di tenere tra medio e anulare della destra il
solito sigaro acceso:
Non
era passato ancora un minuto, ed il Rija si vide avvolto dalle fiamme e si
ritrovò senza sapere come, sbattuto nella piazza[1].
In pochi istanti il
locale si trasformò in una polveriera. Proiettili vaganti, come eruttati con
slancio violento dall'armeria di Francesco Principe, penetravano nelle carni di
quanti, in quel giorno di mercato, affollavano la piazza.
Tutti
scappavano spaventati, molti feriti ed insanguinati, donne, bambini che
piangevano, gridavano aiuto parecchi svenuti dal terrore: era una scena
straziantissima che strappava le lagrime dal cuore[2].
Passarono otto
lunghissime ore: la città subì l'impeto e l'assedio del fuoco. Per domarlo le
autorità s'inventarono una catena d'acqua fatta di braccia, pompe e catinelle:
E
con un lavoro nobilissimo, coraggioso, fatto da una parte per mezzo delle
pompe, dall'altro per mezzo dei passamani con catinelle d'acqua che il Sindaco
avea con sollecitudine fatto acquistare in tutti i negozi di Cosenza, verso le
quattro, la nostra popolazione poté incominciarsi ad assicurare che l'incendio
si sarebbe molto facilmente domato.
Così
le armi, da fuoco e da taglio, insieme al vino configuravano un inscindibile
connubio di degradazione verso la violenza, pura e semplice. L'ubriachezza - continua, manifesta o molesta - era spesso associata come
aggravante o, al contrario scusante, in procedimenti penali per rissa,
ferimento o tentato omicidio. Le guardie presidiavano da lontano, poi seguivano
come ombre gli avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere. Perché alle
parole seguivano quasi sempre fendenti ed esplosioni nella città ebbra di vino
e follia.
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